Riflessione sul rapporto tra linguaggio e disabilità. Abbiamo incontrato Cesare Kaneklin, professore ordinario dell’Università Cattolica di Milano e vicepresidente di Fondazione Sacra Famiglia*.

Professor Kaneklin, le parole “Idioti”, “Semi idioti”, “Paralitici”, “Vecchi impotenti”, “Amputati e rachitici”, “Pazzi tranquilli” compaiono nel “Prospetto dei ricoverati” che cataloga le persone ospiti della Sacra Famiglia di Cesano Boscone nel 1910. Cosa ci dicono questi termini del modo in cui la società di allora considerava la disabilità?

Le parole di quel prospetto ci dicono che, all’inizio del secolo, nel definire una persona era molto più accentuato di oggi l’aspetto del confondere la parte con il tutto. Le persone si marcavano a vista d’occhio e ci si fermava a ciò che si vedeva. Oggi consideriamo quei termini spregiativi e anche allora indicavano persone considerate inutili. Ma c’è da dire che le definizioni erano congruenti alle conoscenze di quel tempo. E anche allora, un po’ come oggi, si edulcoravano per non offendere, per cui da quest’ultimo punto di vista non è che abbiamo fatto chissà quali passi avanti. Invece, rispetto a oggi c’è meno l’idea di togliere dalla vista quei soggetti e dimenticarseli. Agli inizi del secolo i soggetti considerati non normali vivevano nelle stalle, lontano dagli occhi.

La Convenzione Onu sui diritti dei disabili del 2006 dà un’indicazione chiara: la definizione da usare è “persone con disabilità”, ponendo quindi l’accento sul concetto di persona. Sono passati dieci anni, ma questa terminologia stenta a imporsi nel gergo comune. Perché?

Perché anche oggi, dal punto di vista culturale, la parte rappresenta il tutto. C’è più rispetto, penso all’arredamento urbanistico delle città, agli edifici pubblici con maniglie per anziani e scivoli per disabili, ma permane un bisogno di marcare le differenze. Il linguaggio che classifica è una sorta di difesa da condizioni di vita considerate poco desiderabili. Oggi tuttavia è meglio di ieri e negli ultimissimi tempi sono stati fatti significativi passi avanti. Penso alle paralimpiadi dove personaggi come Alex Zanardi e Bebe Vio hanno dimostrato come si possano coniugare la vivacità dell’impresa e della gioia con la propria condizione. Con loro è diventato facile identificarsi. Le ambivalenze restano, come dimostrano le feroci critiche a Bebe Vio per la questione del vestito da indossare per la cena alla Casa Bianca. Ma, ripeto, se accanto alla problematica si veicolano anche messaggi positivi, la gente si avvicina. Ad esempio, in Sacra Famiglia la gente viene e partecipa volentieri alla messa domenicale, dove gli ospiti sono coinvolti in modo attivo nella liturgia, perché quello che vede è il sorriso. In definitiva, usare un linguaggio che classifica è legato alle paure. Le persone hanno coscienza delle fragilità, ma le allontanano e non vogliono identificarsi.

Un’altra espressione utilizzata è “diversamente abili”. Qualcuno la critica perché pone l’accento sul concetto di diversità mentre la disabilità è una condizione di vita. Qual è la sua posizione?

“Diversamente abili” è adeguato perché fotografa la situazione: c’è una “abilità” e c’è il “diversamente” nel modo di esprimerla. Tuttavia, per non cadere nel conformismo e nel dibattito moralistico e per capire se questa espressione ci aiuta davvero a camminare più avanti sul piano culturale, bisogna andare dentro i luoghi di cura e verificare se il concetto di “diversamente abili” è stato reso realmente operativo. In Sacra Famiglia lo facciamo con i cosiddetti piani individualizzati, finalizzati a “capacitare” le persone, ovvero a far acquisire loro delle abilità, appunto, assecondando un’aspirazione che poi è quella che abbiamo tutti noi, cioè vivere in modo adeguato.

È un fatto che molti termini usati in passato per definire le persone con disabilità vengano usati nel linguaggio corrente come insulti. Uno per tutti, “handicappato”. Perché è così stretto il legame tra disabilità e insulti?

Nel linguaggio di tutti i giorni le persone cosiddette semplici o della strada usano le parole attinenti alla sfera della disabilità per semplificare la realtà o per identificare rapidamente persone e comportamenti. Non sempre c’è l’intenzione di insultare e, ricorrere a certe espressioni, dipende più che altro dal bagaglio culturale di un soggetto. Poi invece c’è anche una frangia di persone che ha una paura atavica della malattia e della diversità e che usa quei termini per insultare. Sono quelli che non vogliono i disabili nel proprio bar, ad esempio, perché è come se si sentissero invasi.

Altre espressioni come “portatore di handicap” pongono la persona con disabilità in chiave di vittima, con addosso una sorta di “croce”. Perché?

Le persone con disabilità rappresentano in carne e ossa tutto ciò che non vorremmo per noi stessi. E per alcuni questo è intollerabile. Hanno bisogno di non avvicinarsi e di non pensare nemmeno alla dimensione della malattia. La rifiutano. La “croce” è proprio questo: i disabili sono per il nostro egoismo ciò che io non vorrei essere. Si tratta di una reazione primitiva, che poi molti filtrano con il pensiero e l’esperienza di vita. In questo caso tutto diventa semplice e umano. Ma questo è un approdo che dipende dall’educazione e dalla cultura, da quello che ho visto in casa, da come la famiglia si rapporta alla fragilità e alla solidarietà. Un percorso che non tutti fanno.

*Intervista a cura di Generoso Simeone 

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